Emilio Tadini, da poeta a pittore

Ho scoperto che Emilio, quasi di nascosto, disegnava durante un convegno sulla città di Milano. Mi ricordo che eravamo stati invitati entrambi a tenere un commentario a proposito della struttura urbanistica e di come si fossero sviluppati l’assetto e il clima ambientale nonché culturale della nostra città nei secoli, dal Medioevo al Rinascimento per risalire ai giorni nostri.
Quell’incontro si svolgeva alla fine degli anni Cinquanta, in un salone del Circolo della Stampa.
Ho pensato a prima vista che Emilio stesse scarabocchiando figurine per distrarsi dalla pallosità di certi interventi assolutamente privi di interesse.
In quell’occasione a me toccò di parlare prima di lui. L’argomento che avevo scelto faceva parte di un’inchiesta condotta al tempo in cui frequentavo ancora Architettura al Politecnico di Milano; trattava del sistema delle fognature impiantato dai romani al tempo della Repubblica e poi sviluppatosi con i Comuni. Allora i canali dell’acqua dolza e netta erano ben distinti e rigorosamente tenuti separati nella loro corsa dalle cloache fognarie. Raccontai di alcuni interventi molto severi effettuati dai Maestri-Giudici delle Acque contro un gruppo di grossolani imprenditori della lana, che, all’inizio del Duecento, coi loro scarichi di tintoria avevano intorbato fiumi e canali; giocai satireggiando sul processo e sulle condanne davvero spietate inflitte a quei cialtroni e paragonai il tutto all’indifferenza e all’ignavia degli attuali amministratori.
Emilio smise un attimo di scarabocchiare sul suo foglio, scoppiò in una risata contrappuntata da un applauso quindi tornò a concentrarsi sui suoi ghirigori.
Il conduttore della serata, appresso lo invitò a tenere il suo discorso.
Nel levarsi in piedi per recarsi al microfono, a Emilio caddero alcuni fogli sui quali stava pasticciando sghiribizzi. Li raccolsi e mi resi conto che non si trattava affatto di scarabocchi ma di veri e propri disegni espressi con forza e mestiere. Soprattutto non c’era nulla di approssimativo o dilettantesco. Sembravano appunti ispirati a Bosch e Mirò messi insieme. Con quegli schizzi Emilio aveva improntato la struttura di un palazzo visto a volo d’uccello con personaggi che si muovevano senza peso dentro e fuori la costruzione.
Ad alta voce mi scappò detto: “Ma che è, il pittore misterioso? Perché non me ne ha mai parlato?”.
Emilio e io ci conoscevamo fin da ragazzi: appena finita la guerra avevamo viaggiato insieme per tutta l’Italia; insieme ci eravamo trovati a Parigi dove passavamo da un museo all’altro, scarpinavamo per tutta la città di giorno e di notte, commentavamo le emozioni provate discutendo di ogni cosa, di pittura, di poesia, di lettere.
Avevo illustrato per Emilio alcune sue liriche dal ritmo assolutamente insolito che Einaudi era in procinto di pubblicare.
Eravamo alla scoperta di tutto e vivevamo ogni variante come una rivelazione. Si erano sorpassati appena i vent’anni; Emilio possedeva oltre che un gran talento di scrittore, una dote che invidiavo: l’ironia mista alla conoscenza.
Spesso, vedendolo navigare dentro i testi appena stampati che ci facevano scoprire gli scrittori dell’Europa e degli Stati Uniti seppelliti dalla guerra, lo assillavo con dubbi e quesiti allo scopo di trarne da lui lezione.
Dovrò ringraziarlo senza sosta per tutte le dritte che mi ha elargito in quegli anni. Per merito suo ho scoperto la poesia di Baudelaire e gli scritti di Rousseau, nonché pensieri e iperbole di filosofi e polemisti a me sconosciuti della letteratura contemporanea d’Europa.
Non avevo indovinato però, né sospettato del perché preferisse accompagnarsi a noi pittori e scultori piuttosto che ai letterati.
Lo capii soltanto l’anno appresso, quando mi accompagnò al vernissage di una mostra dove per la prima volta esponeva un buon numero di suoi dipinti. Fino ad allora aveva immancabilmente scantonato, perfino evitando che gli si andasse a far visita soprattutto nello studio che da poco aveva aperto presso casa. In quel salone mi trovai all’istante davanti a dipinti di buona dimensione, intorno al metro per settanta, qualcuno superava i due e anche tre metri di base. Con me c’erano Alik Cavaliere e Luigi Parzini, un pittore di Novara. Quest’ultimo esplose in una bestemmia: “Porco…! Ma quando e dove li ha dipinti? E perché fa l’imboscato? Guarda tu, come stende la pittura… un dilettante lo scopri subito per la maniera in cui impasta i colori sporcandoli e sbiacicandoli senza rigore. Questo figlio di buona donna fa le basi a pennellata corta poi stende velature, colora di punta e schiaccia le terre d’ombra come si fa in affresco!”.
A mia volta commentai: “E’ uno che ha imparato ad avere molto rispetto per questo mestiere: prima imparare, poi fare!”.
Ancora, apparivano sul fondale della tela pupazzi che si agitavano senza muoversi, altri fuggivano senza spavento, altri ancora stavano seduti, come in “En attendant Godot”, ad aspettare qualcuno che non sarebbe mai arrivato. A primo acchito potevano sembrare dipinti esclusivamente decorativi ma dopo pochi attimi t’accorgevi che su quelle tele galleggiava un’angoscia incontenibile: quei burattini senza peso respiravano e tenevano occhi smarriti… tutto ritmato da una danza senza alcuna festosità.
Certo che scoprire un pittore di quel valore, così, all’istante e senza preavviso, aveva tutta l’aria di una messa in scena assurda o di un prodigio. Quando poi pensavo che Emilio era riuscito a impossessarsi di tecnica, trucchi e magia seduto nelle aule dell’Accademia o girandoci intorno mentre si pitturava su tele o muri affrescando, mi dicevo: “Questo poteva succedere solo a Brera.”.
In quegli anni, a Brera, l’Accademia era veramente una scuola aperta, anzi spalancata, a chicchessia purché dimostrasse di muoversi con serietà ed entusiasmo. I maestri dell’immediato Dopoguerra erano davvero eccezionali sia di qualità che di fama: Carrà, Funi, Carpi, Manzù. Inoltre circolavano dentro e fuori i cortili dell’Accademia Marini, Martini, Sironi, Casorati… insomma tutti i più grandi artisti del tempo. Erano uomini di straordinaria generosità; spesso e volentieri parlavano e discutevano con noi ragazzi con indicibile amabilità.
Le lezioni d’arte e di vita non si dispensavano solo nelle aule, ma ancor più nei bar, nelle osterie e sulle panchine dei parchi intorno. Noi di solito si ascoltava in rispettoso silenzio, ma poi si interveniva proiettando paradossi e iperbole che divertivano i nostri maestri, quelli dell’Accademia e gli occasionali. Ogni tanto quella confidenza ci prendeva la mano e si azzardavano discorsi che creavano rigetto e sdegno, ma non è mai successo di veder qualcuno di quei docenti andarsene seccato, anzi spesso rispondevano a rilancio caricando il paradosso scostumato con altrettanta moneta, così che a nostra volta ci trovavamo con le idee ribaltate e sconnesse.
Le aule erano vissute da un numero strabordante d’allievi che si muovevano liberamente da uno studio all’altro partecipando a lezioni fuori programma. Personalmente, mi era stato permesso di frequentare corsi di scultura o scenografia ai quali non ero iscritto. Di questo privilegio aveva goduto anche Emilio, che all’Accademia era una specie di infiltrato abusivo, ma la simpatia e la stima che suscitava in ognuno, a partire proprio dai professori, gli valeva più di qualsiasi lasciapassare. Emilio possedeva un’ineguagliabile memoria per ogni cosa, e come dicevamo poc’anzi, di certo a Brera ha imparato solo osservando il dipingere e lo scolpire di maestri e allievi ma poi si teneva nascosto e fuori campo mentre si preparava a diventare un pittore di professione.
Come in tutte le comunità di studio, anche in quell’Accademia si formavano gruppi di ragazzi e ragazze con interessi analoghi ma non si proponevano mai come circoli chiusi, tant’è che come accade in certi fenomeni chimici, spesso movimenti diversi si mescolavano uno all’altro aprendosi anche a ragazzi che provenivano da altre situazioni come gli attori del Piccolo, studenti d’architettura, di lettere e giovani sceneggiatori e registi del cinema provenienti da Roma e da altre città.
Brera, negli anni Cinquanta e Sessanta, era diventata il più importante crogiolo culturale non solo d’Italia ma addirittura d’Europa tant’è che moltissimi artisti stranieri di diverse età scendevano a Milano per vivere e studiare questo straordinario fenomeno.
A Brera ci sono ritornato in più occasioni, specie negli anni della contestazione giovanile. Molti miei compagni d’Accademia erano diventati maestri di pittura, incisione, scultura e scenografia. Ho tenuto anche qualche lezione ma soprattutto mi sono esibito come attore e maestro della messa in scena nelle aule e nel quadriportico centrale.
Spesso Emilio, che nel frattempo era stato nominato Presidente dell’Accademia, mi sollecitava a tenere lezione nell’aula grande.
Negli intervalli o al termine dell’incontro mi capitava di parlare lungamente con lui e con gli altri vecchi compagni. Il tema era immancabilmente il confronto e la differenza fra gli anni del Dopoguerra e quelli che stavamo vivendo. Nell’analisi generale e attraverso le testimonianze di ognuno, scoprivamo che la felice condizione di un tempo si era completamente deteriorata. I gruppi di ragazzi, per non parlare degli artisti già formati, apparivano ora sempre più chiusi ed isolati, soprattutto ognuno coltivava egoisticamente il proprio orto delle opportunità e della carriera, si diventava maestri, o meglio professori, non per vocazione all’insegnamento ma in particolare per lo stipendio che poteva sistemarti definitivamente.
Non è per rimembrare il “ti ricordi nel tempo addietro…” come dice una vecchia canzone popolare, ma davvero è sparito il senso del legame d’intenti e della collettività.
Nel Dopoguerra ci si univa e ci si cercava anche fra opposti per crescere, oggi ci si restringe come in un brodo consommé. Si finge di stare insieme solo intasando i caffé in un’ammucchiata di vociare negli aperitivi e poi t’accorgi di non ricordare nemmeno con chi hai parlato o discusso, e nemmeno ti ricordi quello che hai detto o ascoltato. Ecco perché non si dipingono più figure, uomini e donne, che s’abbracciano e vivono insieme.
L’amore non è più qualcosa da spandere intorno come in una festa, è un sentimento del tutto privato, personale di cui si può parlare ma in terza persona… Capita ad altri.
In un mondo pieno di fari e luci ma sempre più spento.
Dario Fo