Milano

Carlo Petrini e Jacopo Fo per Dario - 15 ottobre 2016

Di seguito la trascrizione delle parole di Carlo Petrini e Jacopo Fo durante il funerale di Dario Fo davanti al Duomo di Milano, il 15 ottobre.

Le parole di Carlo Petrini:

 

Dario ha voluto curare questa ultima regia e io per amicizia e per affetto mi trovo a fare questa difficile parte. 
Con tutto il rispetto del luogo, sono vittima di un bello “scherzo da prete”! 
E chiedo a voi benevolenza e comprensione se mi limiterò a ricordare a tutti due episodi tra i più significativi e importanti della mia lunga amicizia con Dario: uno pubblico e uno privato.

Prima di tutto però lasciatemi dire una cosa: in questi giorni molte persone oneste e sincere hanno tenuto a sottolineare la differenza tra l'artista, il genio straordinario, l'attore meraviglioso, e la politica, quasi come se le due cose fossero scindibili. Ecco, io voglio dire, con tutto il rispetto, che penso che questo sia impossibile e che non sia giusto. 
E ben lo sapevano quei sovversivi dell'Accademia svedese che motivarono il suo Nobel con una sintesi perfetta: “Seguendo la tradizione dei giullari medioevali dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi…” Dileggia il potere e restituisce la dignità agli oppressi!
Sono accademici, sono svedesi e fanno questa affermazione quando l'anno successivo, nel riconoscere lo stesso premio a Josè Saramago, motivarono il suo Nobel per la sua straordinaria immaginazione e poi nel 2006 a Orhan Pamuk per la nostalgia della sua città natale. 
Per Dario la motivazione fu: “dileggia i potenti per restituire dignità agli oppressi”. 
La sintesi è che questo premio, nella sua valenza artistica, era impregnato di grande politicità… e noi dobbiamo riaffermarla con forza, questa simbiosi stretta, strettissima tra la sua arte e il suo impegno politico, sempre guidato da un gran senso civico! Con grande onestà, senza ricavarne benefici, sempre al fianco dei più umili. Pensare a Dario senza la politica è come se dalle mie parti dovessimo pensare a un buon vino fatto senza l'uva. E oggi voglio partire da questa politicità nel ricordo di quella che per me è stata un'esperienza straordinaria che voglio condividere con voi. 

Nell'ottobre del 2012, davanti a 7000 delegati di Terra Madre (contadini, pescatori, nomadi, artigiani del cibo) difensori della biodiversità del pianeta, provenienti da 140 paesi del mondo, Dario volle rappresentare La fame dello Zanni. 
Quando salì davanti a quell'immenso pubblico, dopo aver sentito come questa parte dell'umanità è chiamata a soffrire a causa di un'economia finanziaria canaglia che distrugge la loro dignità e il loro lavoro, Dario ricordò che nel '500 lo Zanni Padano, il Johan, il Giovanni, era anche lui vittima, vittima di questo sopruso. Perché già allora si accumulavano derrate alimentari per poi metterle nel mercato e distruggere i prezzi, distruggere la vita dei contadini… e questo accadeva già nel '500 e Dario lo ricordò davanti a quella straordinaria umanità. 
Aveva davanti 7000 Zanni, 7000 ne aveva, parlavano lingue diverse, la maggior parte non conosceva Dario Fo: come potevano conoscere Dario Fo gli Indios Yanomami dell'Amazzonia, i pastori Masai del Kenya, i contadini del Burkina Faso, i pescatori della Tailandia? No, non lo conoscevano … E ad un certo punto, in un momento estremamente intenso, si dovettero fermare tutte le traduzioni - dieci traduzioni in lingua che davano a tutti l'opportunità di capire quello che si andava dicendo - perché Dario incominciò il suo gramelot, dichiarando che non era quello originale ma era frutto della sua fantasia. 
E descrisse la fame dello Zanni che prima prende parte del suo corpo e se lo mangia dalla fame, poi s'immagina in una immaginifica cucina dove c'è di tutto, ogni ben di Dio, e prepara un pasto straordinario. 
Nei primi due o tre minuti quei volti guardavano questo ottuagenario che si esprimeva col corpo, poi incominciarono a intuire che tirava il collo a una gallina, incominciarono a intuire che tagliava a fette il salame, videro che accendeva il fuoco della caldaia, videro che tutti questi pezzi entravano dentro, capirono che c'era il sale, il pepe, il mestolo che girava, e lui girava il mestolo per preparare questo pranzo e incominciarono a entrare in sintonia senza capire niente di quel gramelot.  Ma era la rappresentazione visiva di un messaggio, il messaggio di quello che è la vergogna di sempre di questo mondo, il messaggio che ci mostra che dobbiamo convivere ancora in un mondo dove milioni di persone soffrono la malnutrizione e la fame, e questa parte di mondo non merita questa logica di un'economia finanziaria canaglia.  
Quando lo Zanni poi prende questo calderone e mangia a quattro palmenti, sazio, come per incanto si accorge che era tutta fantasia, che non c'era niente, che non c'era niente da mangiare e urla disperato, però a un certo punto una mosca incomincia a girare, incomincia a voltargli attorno e lui la prende e questa mosca diventa il suo pasto, quelle alette, quelle gambe che ricordano i prosciutti e poi la mangia, la divora e chiude, chiude urlando davanti a tutti: “Che magnata! Che magnata!”.

E a quel punto i 7000 contadini e pescatori fecero un applauso straordinario perché avevano avuto quello che è l'elemento distintivo della tradizione contadina, avevano avuto l'oralità, quell'oralità che i nostri contadini provavano nelle stalle sentendo la storia di Bertoldo, quell'oralità che i contadini francesi avevano ripetendo Gargantua e Pantagruel e la sentirono loro, la sentirono in modo uniforme. C'era quell'oralità che nei villaggi indiani gli anziani esprimono raccontando le loro storie. E Dario ne ha fatto la sintesi e in quella sintesi sta il suo vero premio Nobel, ha parlato agli umili e gli umili della terra lo hanno capito.

Guardate, penso che la sua regia prevedeva anche questa pioggia perché solo dei coraggiosi stanno qui per rendergli omaggio sotto alla pioggia. 
L'ultimo ricordo è un ricordo di appena cinque giorni fa quando, nel suo letto di ospedale, ci ha intrattenuti per un'ora e mezza a descrivere le visioni che aveva. Mi diceva: “Sai, non lo governo io! Questo copione non l'ho fatto io, lo sto interpretando, e vedo queste figure… Perché? Perché sono drogato, perché le medicine che mi danno per non soffrire mi drogano e questa droga mi rende impotente!”. 
Le sapeva descrivere e assieme alle figure sentiva delle voci e ci disse che quelle erano le voci che nella drammaturgia shakespeariana e del Ruzzante sono le voci dei pazzi, dei matti che sono fuori di noi ma che diventano parte di noi. Un'ora e mezza, cinque giorni fa, ecco che a quel punto cita il pazzo che davanti alla croce parla col Cristo, cita il pazzo Becchino che parla con l'Amleto, il pazzo, il matto che parla col Re Lear.
Quando sono uscito, impressionato da questa manifestazione, sono andato a vedere cosa diceva il pazzo al Re Lear. Il pazzo al Re Lear diceva: “Troppo in fretta sei invecchiato, non hai fatto in tempo a diventare saggio”. 
Lo scriveva Shakespeare e un secolo prima il Ruzzante, grande maestro di Dante, scriveva di se stesso: “Troppo in fretta mi sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza”.
Ma che bel finale Dario, sei arrivato a novant'anni e ci hai consegnato la bellezza della tua intelligenza e della tua giovinezza! Per questo ha ragione Jacopo: è stato un gran finale! Perché all'età di novant'anni… come si dice dalle mie parti: tanti di noi farebbero la firma per essere protagonisti di un finale del genere ed è per questo che noi oggi dobbiamo celebrare, sotto la pioggia, la gioia, l'allegria, consci che celebriamo una vita spesa nella generosità e nella solidarietà e non la celebriamo solo per Dario, la celebriamo anche per Franca!

Un giorno nel vederla sempre così attiva, trafelata la definii con una parola piemontese e dissi: “Franca tu sei sfaraggiata” perché lo sfaraggiamento è una dimensione… come dire.... e lei a sentire questa parola si ribellava. Diceva: “Sfaraggiata a me!? Io sono l'unica in questa famiglia… mi devo accudire due matti in casa, c'ho un monumento e io di quel monumento sono il basamento, io lo reggo con la mia schiena, con la mia testa quel basamento.” 
Il monumento non sta in piedi senza il basamento e oggi noi dobbiamo essere felici, felici perché dopo tre anni quel monumento ritrova e si ricongiunge con il suo basamento e dobbiamo essere felici, dobbiamo essere felici di averli conosciuti, dobbiamo essere felici di averli amati, dobbiamo raccontare ai nostri figli e ai nostri genitori che abbiamo conosciuto queste persone, che ci hanno insegnato che per quei quattro giorni che abbiamo da vivere è meglio essere generosi che avari, è meglio darsi da fare che essere accidiosi, è meglio essere gioiosi che magonosi. 
E' questa la giornata che celebriamo, e che piova ancora di più, tanto a noi non ce ne frega niente! Perché in questo sabato noi stapperemo le bottiglie e in questo mezzogiorno, tornando nelle nostre case mangeremo e berremo e canteremo, e se possiamo balliamo, e se possiamo facciamo l'amore, esprimiamo tutta la nostra allegria. 
Ritroviamo la gioia, la gioia straordinaria di chiamarci compagni e compagne, non solo perché dividiamo il pane ma perché condividiamo la gioia, condividiamo la fraternità e questo nostro amore reciproco che non lascia spazio a cattiverie di alcun genere.
Noi siamo e vogliamo essere questi e celebriamo il più grande tra di noi, il più grande che aveva la capacità di dileggiare i potenti con uno sberleffo. 
Oggi allegri bisogna stare che il troppo piangere non fa per noi, allegri bisogna stare perché il troppo piangere non rende onore ai nostri amici, allegri bisogna stare perché celebriamo la vita, il grande mistero della vita e della morte, l'unico grande Mistero Buffo della nostra precaria esistenza.

Le parole di Jacopo Fo:

A tutti voi che siete qui vorrei raccontare un episodio di tanti anni fa, quando ero un bambino… Un giorno mio padre si stava facendo la barba perché doveva uscire, doveva andare a recitare a teatro, e mentre stava lì in bagno mi sono seduto sul bordo della vasca e lui ha iniziato a raccontarmi una storia, la storia di quando nel Medioevo, a Bologna, c'è una guerra e vengono mandati a morire decine di migliaia di giovani bolognesi. 
Davanti a questo massacro, la popolazione insorge, c’è una rivolta, però i nobili, i maggiorenti della città, si chiudono dentro la cittadella di Bologna, che allora era una fortezza impenetrabile, dove avevano scorte di cibo e di acqua per resistere per tantissimo tempo. Il popolo non aveva strumenti per combattere, non aveva torri d’assedio, non aveva le catapulte, non aveva niente. E mio padre mi dice: “Come possono, come può il popolo senza armi riuscire a conquistare la cittadella che è strepitosamente difesa?” Io non avevo nessuna soluzione, mi sembrava impossibile, e allora lui mi raccontò quel che era successo veramente... 
A un certo punto qualcuno ebbe l’idea di fare una cosa elementare: coprire di merda la cittadella di Bologna, e la gente iniziò ad arrivare con le carriole, con i carri, a lanciare la merda con tutti gli strumenti possibili immaginabili. C’era gente che faceva chilometri trattenendosi per arrivare a farla lì. A un certo punto i nobili si trovano talmente coperti di merda che non ha più senso resistere perché gli fa schifo tutto, e si arrendono.
Io credo che, se voi guardate tutto quello che mia madre e mio padre hanno raccontato, c’è sempre questo elemento costante.
Loro hanno raccontato storie di persone che non avevano nessuna possibilità, che si battevano contro un potere immenso e invincibile, però può succedere quella cosa… può succedere che della gente che non ha potere, si prenda il potere! Si prenda la dignità di vivere, trovi delle soluzioni geniali!
In tutte le storie di mio padre ci sono soluzioni geniali che possono rovesciare la situazione, perché se smettiamo di pensare nel modo che ci hanno suggerito, se smettiamo di pensare che una fortezza impenetrabile sia veramente invincibile, allora possiamo trovare un’idea assurda, un’idea ridicola. Una risata vi seppellirà!

C’è un’altra storia che vi voglio raccontare, è una delle prime storie di Mistero Buffo, è la storia di questo contadino poverissimo: a un certo punto, siccome questo contadino ha una moglie bellissima, arriva un signore, il nobile feudale, e massacrano di botte questo contadino, violentano sua moglie e poi la uccidono, uccidono i suoi figli, e lo lasciano per terra convinti che sia morto. Ma questo contadino non è morto e si riprende. Decide che non vuole più vivere, che è troppo orribile quello che gli hanno fatto e prende una corda, gli hanno rubato tutto ma una corda gliela hanno lasciata, la lega a una trave, sale su uno sgabello...
Sta per suicidarsi quando entra un giovane, Gesù, e si avvicina a lui e lo bacia sulla bocca, e improvvisamente nella testa di questo contadino iniziano a muoversi delle rotelle che lui non sapeva neanche di avere, e questo contadino sente una voglia incredibile di raccontare quello che ha subito e diventa un Giullare.
Questa è la storia della nascita del giullare, ed è la storia del lavoro di mia madre e di mio padre, una storia che parte da questo, una storia che parte dal fatto che il primo passo di cambiare le cose è iniziare a raccontarle, raccontare la nostra vita alla gente.
La cosa grandiosa del loro teatro è che si raccontavano loro, che mettevano negli spettacoli quello che gli succedeva, che parlavano con gli operai di una fabbrica, con gli studenti, e poi su quello che questi compagni avevano raccontato costruivano uno spettacolo. In scena c’era la loro vita, non era una semplice esibizione di abilità istrionica, di capacità di fascinazione. 
No, la gente ama Dario e Franca per questo, io credo che voi che siete qui sotto il diluvio universale avete visto questo! Non avete visto un bravo attore, avete visto uno che c’era veramente.

E io vorrei dire... Mio padre mi ha detto una cosa fin da quando ero piccolo, non era uno che faceva grandi lezioni, però ogni tanto gli scappava di dare un consiglio, e il consiglio che mi ha dato mio padre è: “Fai quel che vuoi, che campi di più!”.
Ma non “fai quel che vuoi” nel senso che “se non hai voglia di alzarti, se non hai voglia di seguire un impegno, fregatene”. No, non in questo senso!
Fai quello che vuoi nel senso più alto: che cosa desideri? Se hai un desiderio seguilo a tutti i costi. E mio padre e mia madre hanno fatto questo, sono andati avanti nonostante tutto quello che gli hanno fatto, non hanno piegato la testa!
E la gente che li ha colpiti... ha perso!
Mio padre ha fatto una vita straordinaria! Mia madre ha fatto una vita straordinaria!
Hanno ricevuto una quantità di amore...
Io sono stato nella camera ardente a salutare, fino a che ce l’ho fatta a stare in piedi, tutte le persone che venivano. La quantità di persone che venivano a dirmi “tuo padre ha fatto questo per me”...
C’erano gli operai delle fabbriche occupate ma c’erano anche persone che avevano ricevuto una cosa che a volte serve più di qualsiasi altra: essere ascoltati. Mio padre era uno che sembrava completamente distratto ma era uno capace di stare anche un’ora ad ascoltare una persona che vedeva il nero del mondo.

E vorrei dire un’ultima cosa, prima che vi sciogliate definitivamente sotto il diluvio universale... Noi abbiamo saputo che mio padre era, dal punto di vista della malattia, senza speranze a luglio. Era veramente in una situazione difficile, mio padre lo diceva… “Sto lottando come un leone!” Lui è riuscito a recitare il primo agosto davanti a tremila persone in uno spettacolo di due ore, e finire cantando.
Il Professor Poletti, grandissima persona, che lo stava curando, quando gli ho telefonato da Roma e gli ho detto: “Sai, è riuscito a fare tutto lo spettacolo e ha finito lo spettacolo cantando” mi ha detto: “Guarda io sono ateo ma adesso credo nei miracoli!”
Allora, io vorrei dire... la passione per l’arte, l’amore per la gente, la solidarietà: sono medicine!
La riforma della Sanità dobbiamo farla così! I medici devono iniziare a scrivere sulle ricette mediche a fianco dei medicamenti da prendere: dopo i pasti fare arte e fare qualcosa per qualcun altro!

Noi stiamo celebrando questo saluto come mio padre ha lasciato detto, ci sono tanti amici, tanti compagni, che avrebbero tante cose da dire, ma mio padre ha detto che voleva fare una cosa così e noi stiamo rispettando il suo volere.
Qualche compagno mi ha chiesto: ma come mai mettete quella canzone lì, “Stringimi forte i polsi dentro le mani tue?”
Questa è una canzone che mio padre scrisse per mia madre... E lui ha chiesto proprio che fosse suonata questa canzone.
Noi siamo comunisti e siamo atei, però mio padre non ha smesso di parlare con mia madre, non ha smesso di chiederle consiglio… per cui siamo anche un po’ animisti. 
Perché non è credibile che uno muore veramente… dai, si fa per dire!
Sono sicuro che adesso sono lì, insieme.

Tra i tanti messaggi che abbiamo ricevuto ce n’è uno che mi ha commosso, di un padre, di un amico, che ha perso il figlio piccolo da poco, Papo, e questo amico sta scrivendo ogni giorno una lettera a questo bimbo, e ieri gli ha scritto una lettera raccontandogli chi era Dario Fo.
E allora mi piace pensare che adesso mio papà e mia mamma sono lì con Papo e si fanno delle gran risate.

Grazie Compagni, grazie! Grazie!!!


Grazie a Tutti!

 

 

Abbiamo ricevuto centinaia di telegrammi, email, telefonate, sms e messaggi sui blog e sui social network. Veramente tanti.

Biglietti, lettere e cartoline a raccontare ricordi bellissimi.

Rose rosse e bianche, piantine di peperoncino, fiori e canzoni, nasi rossi e maschere per ricordare un momento, un episodio, una vita o una parte di storia.

Tanti, tantissimi, i sorrisi, gli abbracci, le lacrime, le pacche sulla spalla e le strette di mano, che ci hanno accompagnato in questi giorni.

E' stato molto emozionante sentirvi vicini, anche se dall’altra parte del mondo. Vedervi arrivare alla camera ardente per un saluto a pugno alzato o per un minuto di silenzio, vedervi e sentirvi con noi sotto la pioggia battente per strada e in piazza Duomo.

Vogliamo ricordarvi uno a uno, ringraziarvi. E cercheremo di farlo presto.

Per ora un grazie enorme per la vostra vicinanza e partecipazione.

GRAZIE!

La famiglia, i collaboratori, la Compagnia Teatrale Fo Rame

 

L’idea di ritrovarmi, dopo, con Franca in un giardino, lei e io mutati in due begli alberi, il suo magari con le foglie dorate come erano i suoi capelli... sarebbe bellissimo.

Se un qualcosa dovesse esserci dopo, vorrei che fosse così.

Dario Fo in "Dario e Dio"

 

 


Dario Fo - 13 ottobre 2016

 

 

Milano, 13 ottobre 2016

Il Maestro Dario Fo si è spento oggi 13 ottobre 2016 presso l’Ospedale Luigi Sacco di Milano, dove era ricoverato da qualche giorno a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Il nostro Paese e il mondo intero perdono oggi un artista che per tutta la vita si è battuto contro l’affermazione secondo cui “la cultura dominante è quella della classe dominante”. Attraverso la sua intera opera Dario Fo ha lavorato affinché le classi sociali che da secoli erano state costrette nell’ignoranza prendessero coscienza del fatto che è il popolo a essere depositario delle radici della propria cultura.

Per questo suo impegno nel 1997 gli è stato conferito il Premio Nobel per la Letteratura “perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”.

Insieme all’adorata compagna Franca Rame ebbe il coraggio di allontanarsi dai circuiti teatrali ufficiali, che lui amava definire “teatro borghese”, per portare i loro spettacoli in luoghi non convenzionali come fabbriche occupate, piazze, case del popolo e carceri.

Quando si appassionava a una storia e a un personaggio per prima cosa conduceva un’inchiesta approfondita, per imparare lui stesso in modo da poter trasmettere agli altri. La sua figura si distingue in questo, Dario Fo non ha mai avuto bisogno dell’etichetta di “intellettuale”, perché l’idea di cultura per la quale si è battuto non è né accademica né elitaria. I suoi lavori nascono dalla cultura popolare per essere restituiti al popolo.

Il suo modo di concepire la narrazione non era mai limitato, ma si allargava a tutte le forme artistiche cui amava attingere. Nel momento in cui scriveva una storia all’istante la vedeva, vedeva i personaggi, i volti, le scene, e li raffigurava sulla tela, per poi portarli sul palco, trascinando il suo pubblico in una straordinaria scatola magica.

I funerali del Maestro Dario Fo si sono svolti il giorno sabato 15 ottobre 2016 in Piazza Duomo alle ore 12.00.

Tutta la Compagnia Teatrale e la famiglia ringraziano per l’affetto ricevuto in questi giorni.

 

 


Razza di Zingaro diventa una mostra: le opere di Dario Fo esposte al MiArt Gallery a Milano

 

Dal 13 maggio al 12 giugno Mi Art Gallery ospita la mostra "Razza di zingaro" del premio Nobel Dario Fo, che porta lo stesso titolo del volume edito da Chiarelettere, in cui il premio Nobel ricostruisce la vera storia di Johann Trollman, un pugile sinti della Germania nazista.

Circa una quarantina le opere esposte, tutte ispirate al libro “Razza di zingaro”. Testo nel quale Fo racconta la storia del pugile sinti Johann Trollmann, dal talento eccezionale, la cui vita professionale e privata viene stroncata dal nazismo.

La necessità di proseguire in un percorso culturale che preservi la memoria, rende questa mostra attuale e testimonianza preziosa di ciò che non può essere dimenticato, ma anche un modo per rivolgere lo sguardo e “per parlare indirettamente del presente che non vogliamo vedere”.

Il maestro compie attraverso la pittura un atto espressivo che accompagna, segue e precede i suoi scritti, le rappresentazioni e le centinaia di commedie firmate Fo e Rame.

Tra le opere esposte negli spazi di Miart Gallery, una fra tutte esprime il dolore universale delle separazioni violente “Ultimo dialogo fra Olga e Rukeli: se vuoi salvare la vita tua e del nostro bambino divorzia da me”: attraverso un segno deciso e delicato al tempo stesso, il maestro ferma sulla tela un abbraccio disperato e impotente.

Al centro delle sue rappresentazioni Dario Fo descrive l’uomo impegnato nelle sfide della vita, i figuranti danzano, si rincorrono e si confrontano su un ring regolato da rispetto e lealtà.

Come in una rappresentazione teatrale, i quadri di Fo mostrano gli scenari, i ritratti, i movimenti dei personaggi che animano il racconto scritto, nato da un'inchiesta di Paolo Cagna Ninchi. "Il libro è stato realizzato dopo un'inchiesta condotta da un mio amico e - ha ricordato Fo - mi sono messo subito di buzzo buono, tanto che gli ho chiesto di tornare in Germania per trovare altre informazioni su questo pugile che ha iniziato giovanissimo a fare boxe senza saperne nulla ed è entrato in una scuola dove ha sconvolto i maestri perché danzava sul ring ed era una novità completa. Tutti quelli della vecchia guardia non ne volevano sapere, ma lui vinceva sempre perché andava oltre le regole". La mostra è visitabile dalle 11 alle 19.

 

 

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Dario Fo per Gianroberto Casaleggio - 12 aprile 2016

Quando si parla di Gianroberto i giornalisti tendono a classificarlo quasi subito come l’ideologo, il guru, del Movimento 5 Stelle. È la definizione più banale e ovvia che si possa pensare.

Bisogna partire da un fatto importante, la sua cultura. Era un uomo di una conoscenza straordinaria, leggeva tutto quello che riteneva fosse importante sapere, faceva collegamenti molto acuti fra i vari testi e aveva un modo di esprimersi riguardo alle diverse situazioni mai banale e prevedibile.

Mi capitava spesso di chiedere se avesse letto dei particolari libri che ritenevo importanti, e non azzeccavo mai un documento che lui non conoscesse già, tanto che un giorno gli ho detto: “Ascolta, fai più presto a dirmi quello che non conosci, così non mi metti più in imbarazzo”.

Spesso diceva che era impreparato a dare un giudizio su certi argomenti, e questo denota una modestia, un’umiltà che è difficile trovare nell’ambiente della politica comune.

Un altro tratto del suo carattere che posso testimoniare è la generosità nel modo di comportarsi, specie di fronte ad alcuni momenti tragici della vita del nostro paese. Inoltre evitava le dichiarazioni roboanti e preferiva analizzare prima di definire.

Quando gli chiedevo notizie sulla sua salute cercava di non dare molto peso al problema, diceva: “Sì, non va tanto bene ma speriamo di migliorare”.

A me, personalmente, manca molto. È un baratro nella mia memoria. La sua scomparsa è una perdita gigantesca per il Movimento, e non so immaginare quali conseguenze possano verificarsi, ma sono certo che le persone straordinarie che ne fanno parte, specie i giovani dell’ultima generazione, saranno in grado di proseguire sulla giusta via.

 

Dario Fo


AUGURI DARIO!

 

Dario Fo compie 90 anni: “Sono anziano non vecchio. I vecchi ridono poco, sono nostalgici e di destra. E io a destra mai!”

Articolo di Silvia Truzzi pubblicato sul Fatto Quotidiano: 

Il premio Nobel per la letteratura si racconta: dall'incontro con la moglie Franca Rame alla nascita del figlio, dalla pittura al teatro. "Il giorno più bello della mia vita? Quando è finita la guerra: ricordo come se fosse ieri la festa dei paesi mentre si allontanava l'incubo della morte, delle bombe, di quella distruzione orrenda".

Lo cercano tutti per via delle novanta candeline. E giustamente lui obietta: ma io non ho fatto nulla di rilevante, compio soltanto gli anni.

Il numero però è importante. Come lo è il padrone di casa, che ci riceve in un’assolata mattina milanese mentre la primavera albeggia al di là delle finestre. Siamo venuti tante volte in questo appartamento a parlare con Dario Fo dei suoi libri, dei suoi spettacoli, della politica. L’ultima, l’anno scorso, ci aveva lasciato con una frase indimenticabile: “Creare meraviglia vuol dire suscitare l’incanto in chi ti guarda. E attraverso il coinvolgimento passano al pubblico molte cose, per questo fare teatro è il mestiere più straordinario del mondo”.

Di lui sappiamo quasi tutto, perché non ha mai smesso di lavorare, scrivere, recitare e nemmeno di far sentire la sua voce nel dibattito pubblico. Allora, in occasione di questo compleanno così rotondo e dunque così simbolico, abbiamo cercato di capire da dove arriva quel suo estro vulcanico che tanto ha dato all’Italia.

Tutto comincia a Luino, il 24 marzo del 1926 quando mamma Pina dà alla luce Dario. Suo marito Felice, di nome e di fatto, è un capostazione con la passione per il teatro.

Il più antico ricordo è “un fatto di sangue”, sullo sfondo c’è un binario: “Avevo circa tre anni. Vidi un ragazzo che attraversava in bicicletta la ferrovia. Cadde e si ferì profondamente una mano, in verticale. Gli andai vicino, la mano era tutta rossa di sangue. Era la prima volta che lo vedevo e ho scoperto che l’uomo è pieno di sangue. Poi è arrivato un signore che l’ha soccorso e gli ha stretto una sciarpa attorno alla ferita. E gli ha detto: ‘Andiamo in ospedale perché dovrai mettere dei punti’. Un’altra cosa che mi colpì moltissimo: non sapevo che le persone si potevano rammendare come faceva la mamma con i pantaloni sdruciti”. Un fatto traumatico. E non è il solo. L’altro ricordo è di una notte in cui mi sono svegliato in casa e non c’era nessuno. Ho cominciato a strillare ed è arrivata una vicina. Mi ha consolato, con una perfetta recita a soggetto in cui ha inventato una scusa su due piedi e mi ha fatto riaddormentare. Ma appena i miei sono tornati mi sono svegliato: volevo sapere perché erano andati via senza dirmi nulla. Questi sono i due primi ricordi della mia vita.

La sua scelta di arruolarsi giovanissimo nell’esercito della Rsi ha suscitato un mare di polemiche negli anni Settanta.

Ho scritto tutto in un libro: mi sono arruolato nell’esercito italiano, in quanto italiano e non in quanto fascista, per un brevissimo periodo. Mi sono arruolato per non essere deportato in Germania e alla fine sono andato nei parà perché per i paracadutisti c’era un periodo di addestramento obbligatorio e sapevo che la guerra era agli sgoccioli: in Germania non ci volevo andare, nessuno tornava. Alla fine sono scappato, perché avevano fucilato venti civili senza ragione. Non m’importava nulla che mi uccidessero: il mondo attorno a me ormai era solo brutalità, violenza, sopraffazione. Non m’interessava più nulla di come andava a finire. Sono andato a rifugiarmi in montagna durante le ultime settimane prima della Liberazione. Ma la gente del mio paese, quando sono tornato, non mi ha chiamato fascista. Ho soltanto cercato di salvarmi: ero un ragazzo.

La sua prima vocazione artistica è stata la pittura.

Ho studiato all’Accademia di Brera, per otto anni. In quegli anni imparo a incidere, a dipingere, a scolpire. Però a un certo punto capisco che non siamo più nel periodo d’oro della pittura, con la guerra qualcosa si è rotto. Tanto è vero che anche i pittori già affermati cominciano a faticare. A un certo punto un importante mercante d’arte mi propone di entrare nella sua bottega. Cioè lui mi passava uno stipendio, ma in cambio voleva la gran parte della mia produzione. Mi lasciava una decina di quadri: all’epoca io producevo tantissimo, una tela al giorno. Lui si prendeva tutto, salvo che io fossi diventato molto famoso, allora avrei percepito delle percentuali sulle vendite. Capii che era una truffa e allora dissi basta, questo non è il mio mestiere.

E quindi?

Mi sono iscritto ad Architettura. Contemporaneamente lavoravo per aiutare mio padre a pagare le tasse e i libri: facevo il ragazzo di bottega in uno studio di architettura. Mi mandavano a fare dei rilievi, su cui producevo dei bozzetti. A un certo punto scopro che il terreno di cui mi occupo è vincolato, a uso agricolo. Allora vado dal titolare dello studio e gli dico: ma perché lavoriamo ai progetti su quel terreno che è vincolato? È inutile. E lui mi risponde: ‘Non preoccuparti, le vie del sorprendente in architettura sono infinite’. Un mese dopo, il Comune aveva cambiato la destinazione d’uso di quel terreno, da agricolo a edificabile. Per me fu una delusione grandissima. Disperatamente diedi le dimissioni. Non avevo un soldo, letteralmente, ed ero depresso. Continuavo a dimagrire perché appena mangiavo qualcosa, rimettevo. Un mio amico mi disse: ‘Ma io ti ho sentito recitare e tutti ti applaudivano. Sei bravissimo a recitare, è quello il tuo mestiere!’.

Allora andò a bussare alla porta di Franco Parenti.

Esatto: andai lì con alcuni monologhi che avevo pronti e mi presero subito. Alle prove c’era Franca. Io la conoscevo già, attraverso una fotografia che avevo visto nel salotto di casa di sua madre a Varese, perché per caso avevo conosciuto il fratello.

Ed è stato subito amore?

Dio… era meravigliosa: bellissima, affascinante, spiritosa. Bravissima sul lavoro.

E corteggiatissima.

Lei mi piaceva moltissimo, ovviamente. A chi non piaceva Franca? Ma non era alla mia portata. Tutte le volte che la guardavo mi dicevo: ‘Non perdere tempo, non perdere la testa, non fare casini. Con tutti i pretendenti potenti e ricchi che ha…’. M’imponevo di non incrociare mai il suo sguardo, di non darle retta se mi rivolgeva la parola. Arrivavano fiori, regali, venivano a prenderla con l’automobile. Figurati un po’, io ero uno spiantato. Una sera però ci ritrovammo da soli. Io stavo uscendo dal teatro e lei mi disse: ‘Ma dove vai, Dario?’. Io, secco: ‘A casa’. E lei: ‘Non mangi?’. Le raccontai una bugia: ‘Ho già mangiato prima’. Ma lei aveva capito: ‘Stai dicendo una balla’. Non avevo una lira in tasca. Allora m’invitò lei: ‘Pago io. Ma ho soldi abbastanza per pane, salame e una birra. Ti va?’. Tutti i miei buoni propositi andarono a farsi benedire… Abbiamo attraversato Milano in lungo e in largo, quella notte. Io la accompagnavo a casa, poi lei insisteva per accompagnare me e io di nuovo lei. Abbiamo parlato per molte ore, una serata gioiosa e divertente.

E quindi l’ha baciata?

Ma no! Anzi, non volevo mai uscire con lei. Inventavo delle balle, dicevo sempre che ero occupato, che non potevo. Una volta le ho detto addirittura che avevo un esame al Politecnico e che dovevo studiare e non era vero perché avevo già lasciato. Quella sera stessa, eravamo nelle quinte del palco, lei mi ha dato uno spintone. Sono finito con le spalle al muro e mi ha baciato. Questa è la storia.

Siete stati insieme tutta la vita. Ma Franca a un certo punto l’ha lasciata. 

Veramente mi ha lasciato un mucchio di volte. Quando è diventata soubrettona, in gergo si dice così, per una compagnia molto importante, la sorella le diceva: ‘Lascia perdere gli attori, sono dei perdigiorno. Che vita ti può dare Dario?’. Poi abbiamo fatto la pace, una volta che lei venne a vederci recitare. E tornò con noi per recitare ne Il dito nell’occhio. Poi ci siamo sposati in Sant’Ambrogio con il vescovo che aveva tenuto lì l’arredo di un altro matrimonio. Poi ci siamo lasciati almeno un paio di volte. Sempre lei. E aveva ragione, io ero sballato. Avevamo un successo incredibile, io ero circondato da ragazze bellissime che mi si offrivano… Allora lei disse basta.

Tra queste distrazioni, non c’è mai stata nessuna che fosse importante?

Se fossi ipocrita, le direi che erano tutte storie senza importanza, occasionali. Avventure di nessun conto. Invece no: qualcuna tra queste ragazze si innamorava di me e io anche ero coinvolto. Ma Franca è sempre stata il centro del mio universo. Quando lei se ne andava e mi chiamava l’avvocato dicendomi ‘sua moglie si vuole dividere’, allora era un dramma.

Franca l’ha mai tradita?

Credo l’abbia fatto per ripicca. Io ci soffrivo ma mi sentivo troppo colpevole, capivo che lei aveva tutte le ragioni. Però questi sono stati incidenti, inciampi. Non sono stati mai la chiave della nostra relazione. Ho avuto per Franca un amore assoluto, sconfinato, traboccante. Ricordo quando ebbe un incidente stradale, doveva dormire su una superficie rigida e si sdraiava sul pavimento perché sul letto non riusciva a stare. E io andavo a sistemarmi vicino a lei per terra.

Le donne hanno con Franca Rame un debito di gratitudine per aver avuto il coraggio di raccontare la violenza subita nel ’73. Cos’ha provato lei quando sua moglie è stata presa?

Non ci sono le parole per dire la rabbia, il dolore, il senso d’impotenza. La cosa più terribile è stata quando sono venuti fuori i particolari, il coinvolgimento dello Stato e dei carabinieri, il brindisi alla notizia dello stupro. Il processo andato prescritto… (una lacrima minuscola scivola sulle guancia dietro gli occhiali da sole, ndr)

Come ha fatto sua moglie a superarla?

Un professore nostro amico le disse: ‘Franca, denunciare non basta. La terapia devi fartela da sola, devi salvarti tu. Non basta che ne parli con i tuoi familiari o con qualche amico. Devi liberarti, devi raccontare. Fallo in teatro, è il tuo mestiere’. Lei, scuotendo la testa, rispose: ‘No, questo non posso farlo’. Un sera, mentre recitavamo uno spettacolo, lei aveva la scena dopo la mia, un monologo. Io ero dietro le quinte e improvvisamente capisco che non è il pezzo previsto, ma che Franca sta raccontando il suo dramma. La gente era sconvolta. Un coraggio da leonessa. E che esempio è stato per le donne! Quelli erano ancora tempi in cui le ragazze non potevano denunciare le violenze.

Cosa le ha insegnato diventare padre?

Ho capito tardi l’importanza del mio ruolo di genitore, di quello che dovevo fare per mio figlio Jacopo. Lavoravo tanto, ero spesso fuori in tournée. Mi sono perso la sua infanzia: è mancata anche a me. Poi ci siamo avvicinati molto e sia io che Franca abbiamo capito che dovevamo vivere insieme la nostra condizione di genitori ed essere in pieno una famiglia. Oggi sono nonno e bisnonno, felice. Passo molto tempo con la mia famiglia: ora per questo compleanno arrivano tutti, mi manderanno a dormire in solaio!

Parliamo di amici.

Sono sempre stato un ladro: di conoscenze, di sapere, di esperienza. Ho guardato i miei amici lavorare, li ho ascoltati e ho rubato, da tutti un po’. Quando ero ragazzino andavo in campagna a dipingere con i pittori adulti: li osservavo attentamente, copiavo. E pure all’Accademia. Io raccontavo storie, favole. Mi esibivo. Come giullare ero già famoso. E poi io chiedevo a mia volta di farmi vedere come si facevano le cose: ho sempre imparato rubando. Gaber, Jannacci mi chiamavano maestro: sono stati i primi. Ho insegnato loro alcune cose… Cadenzare senza esagerare, stare in scena naturalmente. Gli consigliavo di parlare con il pubblico, di creare un rapporto con chi li ascoltava.

Qualche rimpianto?

Chissà perché me lo domandano tutti… Ho avuto una fortuna esagerata nella mia vita. Tutto quello che andava male, le crisi, i momenti distruttivi si sono sempre capovolti. Mi sono trovato spostato dal vento verso orizzonti diversi, cambiamenti, novità. Nessun rimpianto, davvero.

Perché non ha mai voluto guidare l’auto?

Non m’interessava. Guidare è un’attività esclusiva, per cui non puoi mai distrarti. Ho provato una volta e ho capito che non ero adatto. Ma lo sospettavo: perfino in bicicletta cadevo perché pensavo a tutto fuorché alla strada. Poi c’era Franca, lei era così brava a guidare…

I libri più importanti della sua vita?

Tantissimi. Le dico Memorie di un ottuagenario di Ippolito Nievo, che ho letto da ragazzo e amato moltissimo. Fino a un certo punto sono stato un vorace lettore di romanzi. Adoravo Dos Passos e Hemingway. Poi a un certo punto avevo delle curiosità che volevo togliermi, sulla Storia per esempio. Ho cominciato a leggere saggi e pubblicazioni scientifiche.

Il giorno in cui le hanno assegnato il premio Nobel è stato il più bello della sua vita?

No! Il giorno più bello è stato quando è finita la guerra: ricordo come se fosse ieri la festa dei paesi, mentre si allontanava l’incubo della morte, delle bombe, di quella distruzione orrenda. Quando ho vinto il Nobel con Franca ci siamo detti: ‘Adesso non montiamoci la testa’. E abbiamo ricominciato a lavorare.

Cos’è la vecchiaia?

Perché lo chiede a me? Io non mi sono accorto di nulla. Ogni tanto qualcuno mi diceva: ‘Guarda che tra un po’ compi novant’anni’, e io non ci davo peso. La vecchiaia ti viene addosso, all’improvviso. Io però mi sento anziano, non vecchio. E le spiego perché: i vecchi sono conservatori, sono nostalgici. Non fanno che ripetere ‘ai miei tempi’, hanno una mentalità chiusa, a volte ottusa. Non accettano le cose nuove, ridono poco. Sono ostili alla diversità. Io non mi trovo bene con quelli della mia età: peraltro i vecchi di solito votano a destra. E io a destra mai!

 

 

Articolo di Anna Bandettini pubblicato su Repubblica.it:

Ha cantato a squarciagola, ha recitato "La fame dello zanni" nel suo meraviglioso grammelot e poi la storia di "Pulecenella" l'innamorato sbruffone. Così, il vero regalo lo ha fatto lui, Dario Fo, recitando, infaticabile generoso e appassionato come sempre. E' stato il momento più bello ieri sera alla festa per il suo novantesimo compleanno al Piccolo Teatro Studio tutto esaurito con spettatori che via via arrivavano seduti per terra, suoi fan, milanesi forse anche come segno di gratitudine verso un artista che in oltre sessant'anni di palcoscenico ha interpretato impegno, passioni, utopie, delusioni, slanci collettivi.  

Belle le testimonianze dei famigliari che si sono succeduti sul palco: il figlio Jacopo che ha raccontato cosa ha voluto vivere con due genitori "diversi" come Dario e Franca, la nuora Eleonora che ha restituito l'ironia di due "suoceri" così e poi i nipoti, Iaele la più giovane ("Quando alla patente l'esaminatore mi ha chiesto "Si chiama Fo. Parente?", io dicendo sì ho subito pensato "speriamo sia un comunista!") e i due piccoli bisnipoti.

Stefano Benni, in segno di omaggio al maestro ha voluto ricordare Franca Rame con la poesia che le aveva dedicato per i suoi 70 anni, Carlo Petrini, che ha portato un assaggio della gastronomia Slow Food, e ha ripercorso gli anni dell'impegno politico e della militanza, e Enrico Intra che ha accompagnato il festeggiato al piano in un originale blues tra gli applausi della platea dove c'erano altri amici a cominciare da Claudio Bisio: "Buon compleanno, maestro", lo ha salutato, Mario Pirovano l'allievo forse più devoto.

Finale con torta e candeline regolarmente spente e l'irrinunciabile Banda degli ottoni che accompagnò anche la festa del Nobel nel 1997.

Ma a proposito di regali, quello forse più bello per Dario Fo è stata l'inaugurazione, mercoledì, della sede dell'archivio "Dario Fo e Franca Rame" a Verona, nello stesso edificio dell'archivio di Stato.

Museo, laboratorio, sala per mostre e presentazioni: così Dario Fo vuole che sia questo immenso luogo della memoria dove ha finalmente trovato cura e custodia il milione e più di documenti che testimoniano la storia settantennale del teatro di Dario Fo e Franca Rame: copioni, manoscritti, stesure diverse dei testi, disegni, bozzetti, dipinti, manifesti, copie di contratti, libri, articoli, costumi, pupazzi, marionette, scenografie, locandine e fotografie di scena.

Un patrimonio immenso, e va dato atto al ministro Franceschini di averlo capito e valorizzato. Per Dario Fo l'archivio dovrà essere un luogo sì, per studiosi,ma soprattutto per giovani dove trovare slancio e occasioni per guardare avanti. L'archivio corona un sogno di Franca Rame che già nell '95, con sguardo lungimirante, raccolse e fece digitalizzare tutti i materiali, rendendoli disponibili online per tutti.

"Vederlo ora custodito e valorizzato in questa sede di Verona è un miracolo- ha detto Fo- Un altro miracolo di Franca".

 

Per vedere il servizio di LaPresse sulla festa al Teatro Piccolo Studio Melato a Milano il 24 Marzo 2016 in occasione dei 90 anni di Dario Fo clicca qui. 


MILANO DEDICA UN PARCO A FRANCA RAME

La Giunta comunale ha deciso di intitolare un giardino a Franca Rame. A lei sarà dedicato lo spazio verde tra le vie Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Roberto Tremelloni.

La cerimonia di intitolazione si terrà mercoledì 16 marzo alle ore 11.30 all'ingresso del parco da via Vittorio Gassman.

 

Sulla targa ci sarà l’epigrafe:

Attrice e sostenitrice dei diritti civili e sociali”.

“Franca Rame con Dario Fo, compagno nella vita e sulla scena, ha scritto e messo in scena decine di spettacoli di grande successo che hanno appassionato e fatto riflettere diverse generazioni. Una grande attrice –afferma il sindaco Giuliano Pisapia - che non ha mai rinunciato al suo impegno sociale e civile. Con questa decisione Milano celebra un’artista che ha caratterizzato la vita culturale della città per decenni”

Il parco Franca Rame è un parco comunale di 51 mila mq grande quanto sette campi di calcio con 500 alberi. È la nuova area verde del quartiere Adriano, nell'area dove una volta sorgeva l'azienda Magneti Marelli, ai confini con Sesto San Giovanni.

Il parco Franca Rame è stato progettato "con spazi d'incontro e percorsi accessibili a tutte le età". Il cuore è un prato di quasi 39mila metri quadrati, circondato da alberi. Ai lati, le attrezzature per i giochi dei bambini e per la sosta, spiazzi e sedute, campi per le bocce, un'area con pergolato per il ristoro, area cani, giardini e architetture vegetali.
 

Clicca qui per visitare il sito web del Parco Franca Rame.

 

Alcune foto dalla pagina facebook "Parco Franca Rame"


Diario d'artista: Dario Fo pittore, gli ultimi ritocchi alla tela

 

 

#diariodartista

Dario Fo esegue gli ultimi ritocchi a una tela su cui sta lavorando da qualche giorno.

I quadri e i bozzetti delle opere sono in vendita su http://shop.dariofo.it , parte del ricavato va a finanziare il NUOVO COMITATO UN NOBEL PER I DISABILI fondato nel 1987 insieme a Franca Rame.