L'altro Mandela: tagli ai privilegi e un solo mandato.

 

di Dario Fo 

il Fatto Quotidiano 12 dicembre 2013

L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, in seguito alle continue manifestazioni e alle pressioni dei democratici, anche bianchi, del Sudafrica, venne liberato dalle carceri nelle quali aveva trascorso gran parte della sua vita. Di lì a poco ci furono le nuove elezioni e l’ergastolano fu eletto Presidente del Sudafrica. Suo vice fu nominato l’ex presidente bianco, De Klerk, che aveva firmato la sua liberazione. Mandela, appena eletto, entrando nel salone–ufficio assegnato al Presidente del Sudafrica esclamava: “Sarà difficile che mi abitui a questi spazi, vengo da una cella di dimensioni molto ridotte, col cesso incluso”. Quindi, rivolto al suo segretario, chiede: “Visto lo sfarzo, quanto è la paga?”. Il segretario mostra la parcella scritta su un foglio. Mandela rimane un attimo senza fiato e ed esclama: “Che esagerazione! No, non posso accettarlo!”. All’istante a tutti quanti noi italici vengono in mente le reazioni degli ultimi eletti al parlamento quando, agli inizi di quest’anno, qualche onorevole fece notare il disastro da cui si trovavano travolti i pensionati, i licenziati delle fabbriche chiuse, smantellate, coi macchinari spediti all’estero. “Dovremmo far qualcosa, dimostrare la nostra solidarietà!” esclamò uno dei neoeletti. “In che senso solidarietà?” chiese impallidendo il solito veterano della poltrona garantita. E la risposta fu: “Cedere una parte del nostro stipendio per soccorrere gli esodati e i giovani senza alcuna prospettiva di lavoro”. Dopo qualche secondo, nella sala non c’era più nessuno, salvo il giovane autore dell’insana proposta.

In una scena all’inizio dello stupendo film Invictus di Clint Eastwood, il partito di Mandela, riunito a congresso, decide di abolire i colori e lo stemma dalle casacche dei giocatori della nazionale di rugby, lo sport più popolare in Sudafrica, dove c'era un solo nero. Votazione per alzata di mano. Tutti gli uomini di colore levano le braccia in alto. I simboli della squadra, che oltretutto si trova in una crisi disperata, vengono annullati. Allora entra in scena Mandela, prende la parola e, con tono deciso, si dice contrario a quella risoluzione. “Dovremmo ripristinare gli Springboks. Reintegrare il loro nome, il loro emblema e i loro colori immediatamente. E vi dico perché.

A ROBBEN ISLAND, tutti i miei carcerieri erano bianchi. Li ho studiati, ho imparato la loro lingua, ho letto i loro libri, la loro poesia. Occorreva che conoscessi il mio nemico per poter prevalere su di lui. E infatti abbiamo prevalso, non è così? Tutti quanti noi abbiamo vinto. I bianchi non sono più i nostri nemici, oggi, sono i nostri fratelli sudafricani, i nostri concittadini in democrazia. E a loro stanno a cuore gli Springboks. Se glieli portiamo via noi li perderemo, ci comporteremo come da sempre hanno fatto loro con noi. No. Noi dobbiamo essere migliori. Dobbiamo sorprenderli con la comprensione, con la moderazione e con la generosità.  È il momento di costruire questa nazione, usando ogni singolo mattone a nostra disposizione”. Ci fu una nuova votazione e, per un solo voto, la proposta di Mandela, Venne approvata.

Ciò che vi abbiamo proposto non è il risultato di una sceneggiatura ad effetto facile: neanche una parola è frutto di fantasia e melodramma. In questi giorni gran parte dei giornalisti mistificano per eccesso il personaggio. Si tende a presentarlo come se si fosse trattato di una specie di San Francesco di colore che impone ai seguaci di abbandonare ogni spirito di vendetta. Un insolito politico straordinariamente illuminato e propenso al perdono e alla pacificazione ad ogni costo.

Mandela, fin da prima della sua liberazione, si estranea completamente come se non avesse vissuto tutte le angherie patite e dice: “Quando la mia liberazione era prossima ho messo giù le tracce dei discorsi che avrei dovuto tenere, e man mano le parole “condanna”, “castigo” e soprattutto “vendetta” venivano cassate. A che scopo avrei deluso i miei fratelli che speravano, in memoria dei loro cari umiliati, torturati, e uccisi per anni, anzi secoli, che fosse data soddisfazione a quel popolo trattato come gli animali da allevamento? Ma il problema più importante era quello della costruzione di una comunità nazionale che non vivesse nella logica infinita della vendetta e delle ritorsioni. Il pericolo maggiore era quello di creare, in conseguenza del far giustizia ad ogni costo, una situazione di paura, anzi, di terrore nella totalità dei bianchi, i quali avrebbero preferito abbandonare il proprio paese piuttosto che subire una ritorsione”.

Quel comportamento fu di esempio a tutti i popoli. Soprattutto l’idea di creare tre commissioni di giustizia che avessero come compito quello di scoprire la verità sulle violazioni dei diritti umani. Non solo quelle messe in atto dai dominatori bianchi, ma anche quelle del movimento al quale apparteneva Mandela. E  in particolare fu istituita una commissione che si preoccupava di indurre chi aveva commesso violenze a dire la verità e soprattutto raccontarla davanti alle loro vittime. Solo confessando i propri delitti si sarebbe potuta ottenere l’amnistia. Ma ancor più si cercava di indurre le stesse vittime al coraggio di testimoniare le violenze subite. E qui esce una verità che pochissimi cronisti hanno avuto la dignità civile di raccontare. Cioè quanti furono gli amnistiati e quanti i condannati: i primi furono 849, mentre i condannati ammontarono a ben 5392.  Compresi alcuni vincitori, come l'ex moglie di Mandela, Winnie Madikizela.

Per concludere vogliamo sottolineare un atto di Mandela veramente eccezionale, unico, forse, nella storia delle grandi guide dei popoli. Egli, nell’atto stesso in cui accettava di ricoprire la carica di Presidente del Sudafrica dichiarava che sarebbe rimasto al potere per un solo mandato. E mantenne la sua parola. Anzi, alla folla di sostenitori che insistevano perché rinnovasse quell’impegno egli rispose: “No, non voglio assolutamente essere di esempio per un andazzo che normalmente si ripete in ogni società democratica: quello di gestire il potere ad libitum. Oltretutto ci sono giovani uomini politici che, sono sicuro, faranno meglio di me. Infatti, personalmente, ho mancato in più un’occasione, a cominciare dal problema della lotta all’AIDS, e da un’attenzione più decisa, direi drastica, contro la criminalità organizzata che sta ancora rovinando il mio paese”.

 

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DARIO FO: BEPPE E' UNO DI SINISTRA, SBAGLIATO ACCOSTARLO A BERLUSCONI

 

Intervista di Matteo Pucciarelli a Dario Fo | la Repubblica 8 Dicembre 2013

MILANO - "Personalmente non mi piace quando si colpiscono i sentimenti delle persone con il sarcasmo", dice Dario Fo - icona della sinistra, premio Nobel da un po' di tempo tra i padri nobili del M5S - a proposito del blog di Grillo contro Maria Novella Oppo dell'Unità.

Quindi Grillo ha sbagliato a mettere all'indice la cronistra?

"No, aspetti. Ha solo detto che le cose scritte a proposito del movimento non sono vere. Io me li sono andati a rileggere quei pezzi della Oppo: sono pieni di falsità."

Ma è vero che vi siete sentiti con Grillo e dopo lui ha tolto il post dalla homepage del blog?

"Ho parlato con Casaleggio. Vede? A me fa enormemente piacere se una mia osservazione è utile a far cambiare idea."

E come vi siete chiariti?

"Non c'era nulla da chiarire, io parlo con molta libertà e sincerità e l'ho fatto anche sta volta. Nessun Problema.

Perchè prendersela con i giornalisti, però?

"Ma non sono i giornalisti in sè, solo chi dice menzogne. E lo sa perchè se la prendono tanto con il M5S? Perchè in tanti hanno il terrore di questi ragazzi che vogliono un cambiamento vero. Vedo tanto egoismo in giro, e tanta paura di perdere privilegi.

Esiste anche la querela, se ci si sente diffamati, o no?

"Si, poi passano anni e non si risolve nulla e si spendono patrimoni in avvocati. Sa quante ne ho ritirate io?

Grillo dice di fermare all'ingresso del parlamento gli eletti abusivi. Concorda?

" Lui utilizza il suo linguaggio, ma sono d'accordo. Mi scusi, ma se sono illegittimi perchè fare gli ipocriti? In un paese normale per una cosa del genere il governo sarebbe già crollato, siamo alla follia. La follia di una sinistra che sta insieme alla destra."

Non le fa effetto vedere che Grillo e Berlusconi adesso hanno lo stesso obbiettivo da colpire, cioè Napolitano?

"Non mi provochi. Non metta sulla stesso piano due persone diverse tra loro. Berlusconi pensa solo ai fatti suoi. Grillo ha smesso di lavorare e ha dato spazio a dei giovani volenterosi. E' come dire che comunismo sono la stessa cosa, solo perchè magari combacia un punto in un determinato momento."

E Grillo sarebbe il comunismo immagino..

"E' un uomo di sinistram di sicuro. Come me. Magari ci arriviamo in modo diverso, ma è così".

 

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ARTICOLO PUBBLICATO SU ILFATTOQUOTIDIANO.IT il 6 dicembre 2013

 

Grillo contro giornalisti, Fo: “Nessun linciaggio, ma smettano di sputtanare” Il premio Nobel interviene sull'attacco dell'ex comico alla stampa "ostile" ai 5 Stelle. "Non accetto un linguaggio di questo genere", dice. Ma aggiunge: "I primi che devono cambiare registro sono proprio alcuni cronisti"  

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Dario Fo contro la delocalizzazione: “Così ci sfracelliamo al suolo, serve una legge”

 

Da ilfattoquotidiano.it

Il premio Nobel interviene in favore dei 300 lavoratori delle cartiere Burgo di Mantova, che rischiano di essere "buttati per strada senza pietà". Ma ad approfittare delle condizioni di "schiavismo" all'estero sono anche "Geox, Benetton, Bialetti, Fiat". L'appello allo Stato perché intervenga: "Cancellare la possibilità di spostare aziende solo per accumulare più denaro"

 
 

Non c’è limite all’ingiustizia e alla prevaricazione che il sistema economico è capace di mettere in  atto nei confronti dei lavoratori. Sembra che all’istante l’Italia sia decisa a sbarazzarsi brutalmente di coloro che tengono in piedi i tesori della sua grande tradizione artigiana e produttiva, che tutto il mondo ci ha invidiato per secoli.

I lavoratori delle cartiere Burgo di Mantova corrono il rischio di essere mandati a casa senza tanti complimenti, mettendo sul lastrico numerosissime famiglie. In nome di cosa? Solo del denaro, del  profitto, della perversa logica secondo cui se mi servi ti tengo e quando non mi servi più ti butto per strada senza pietà. Un disastro non solo per un’azienda, ma per tutta la città di Mantova, che viene a perdere una delle sue più importanti realtà produttive. E dire che stiamo parlando dell’unica cartiera in Italia che produce la carta per i quotidiani! Ciò significa che da questo momento giornali come Il Corriere, La Stampa ed altre centinaia di testate, saranno costrette a comprare all’estero la carta su cui gli italiani leggeranno le ultime notizie.

Purtroppo questo è un fenomeno che oggi in Italia sta diventando quasi la norma. Da anni ormai  gli imprenditori italiani spostano le nostre aziende all’estero, dove le paghe dei lavoratori sono più  basse, anche del 75%, e dove ovviamente si pagano meno tasse. Peccato che spesso in questi paesi i lavoratori non abbiano alcuna garanzia e si trovino ad operare in condizioni talvoltadisumane. Ma come, abbiamo lottato tutta la vita perché ai lavoratori del nostro paese fossero garantiti i diritti fondamentali, e adesso mandiamo le nostre imprese in nazioni dove questi diritti nemmeno  esistono?

Eppure alcuni fra i marchi più importanti d’Italia non si fanno alcun problema a comportarsi così. Facciamo un po’ di nomi. Fra coloro che hanno delocalizzato all’estero troviamo per esempio la  Geox (stabilimenti in Brasile, Cina e Vietnam), la Benetton (che è andata a produrre in Croazia) e  la Bialetti (che apre fabbriche in Cina, mentre i lavoratori di Omegna vengono mandati a casa). Ma la regina delle delocalizzatrici è senz’altro la nostra Fiat, che ha scelto di produrre le macchine italiane in Serbia, Polonia, Russia, facendo perdere all’Italia negli  ultimi dieci anni ben 20.000 posti di lavoro.

Per quanto ancora vogliamo sopportare questa situazione al limite dello schiavismo? Quante altre  “situazioni di emergenza” ci faranno bere, da quanti altri “baratri” ci dovremo salvare rimandando  i provvedimenti più necessari e mantenendo in vigore questo sistema vergognoso che, lui sì, ci sta  veramente portando a sfracellarci al suolo?

La cosiddetta “libera iniziativa” degli imprenditori viene platealmente sbandierata come un inalienabile diritto di chi detiene il potere economico. Ma attenti! Questa libera iniziativa non può diventare la libertà di disporre con disinvoltura della vita e del futuro dei lavoratori. Non solo, ma di un’intera società.

La verità è che è necessario un serio intervento dello Stato, il quale deve finalmente discutere ed approvare una legge che affermi che la gestione di un’impresa non può non tenere conto delle  esigenze e della volontà di chi ci lavora dentro. 

Bisogna che le istituzioni riconoscano pienamente che i lavoratori sono parte fondamentale del processo produttivo, e come tale non si possono trattare come degli arnesi da lavoro, delle macchine che quando non servono più, o costano troppo, si buttano via. Al contrario essi devono avere la reale possibilità di dire la propria nella gestione e nelle decisioni che riguardano la vita dell’azienda, a cui essi danno la propria vita.

 

Se si continua a non intervenire significa che il nostro governo accetta questo vero e proprio sfruttamento e rende lecita una gestione a dir poco criminale dell’economia italiana.

Uno Stato civile degno di questo nome non può starsene lì ad osservare come imbesuito una situazione che diventa di giorno in giorno più drammatica, ma deve intervenire a piedi giunti percancellare la possibilità che le aziende possano essere da un giorno all’altro spostate in altri paesi, al solo fine di accumulare sempre più denaro, infischiandosene di coloro che hanno contribuito alla crescita e allo sviluppo di quelle imprese e dell’intera società nel modo più concreto di tutti, cioè con la propria fatica e il proprio lavoro.

 
 

 


RISPOSTA DI DARIO FO ALLA LETTERA DI VAURO "COMPAGNO, SCENDI DA QUEL PALCO"

 

dario fo risponde a vauroCaro Vauro. Poche ore prima di ricevere la tua lettera con la quale mi chiedevi di "scendere da quel palco" montato a Genova per il V-Day, ricevevo una telefonata da Bari da parte di un responsabile del sindacato della Cgil della Puglia, che annullava la richiesta fattami alcuni giorni prima con la quale misi invitava a intervenire a una loro manifestazione dedicata all'importanza della cultura e con riferimento alle lotte degli operai dell'Ilva. Con molto impaccio l'incaricato mi dichiarava che, per ragioni tecniche, non sarei potuto salire sul palco per parlare ai lavoratori e agli studenti. Capii subito che la ragione di quel cambio di programma era senz'altro il discorso che avevo tenuto a Genova il giorno precedente, soprattutto in conseguenza della posizione che avevo preso prima e dopo la sentenza e durante il processo a proposito dell'intossicazione di massa causata dalle esalazioni provenienti dagli altiforni che avevano inquinato l'intera città. Ma cosa mi ero permesso di dire precisamente a Genova davanti a qualche migliaio di intervenuti e, oltretutto, ripreso da tre emittenti televisive nazionali, per non parlare di quelle straniere? Mi ero solo lasciato andare a una breve analisi dei fatti inerenti l'acciaieria di Taranto e gli scarichi tossici, ricordando da quanti anni fosse esploso l'allarme di quella strage annunciata. Per inciso Franca, già nel 2006, aveva denunciato al Senato il protrarsi di quella mattanza che coinvolgeva anche mogli e bambini degli operai.

Come si è potuto da parte del governo e dei partiti, compresi quelli di sinistra per non parlare dei sindacati, tardare in modo così colpevole a prendere posizione e convincere quei lavoratori ad andare a morire pur di mantenere il proprio posto? Ricordavo anche che, proprio nel momento più duro dello scontro il Pd, nella persona del segretario del partito, Bersani, incassò sottobanco un milione di euro per indurre il partito stesso a dimostrarsi più accomodante verso i proprietari, tutti sotto processo e quindi condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno. Nel mio intervento accennavo anche al vergognoso ricatto imposto da Marchionne al sindacato: "O accettate il mio programma e le mie proposte sul salario o tiro su baracca e burattini e trasloco tutta la Fiat in Romania!". Per finire ricordavo di sfuggita la lotta tuttora in corso in Val di Susa a proposito del Tav. Concludevo con la strage dei barconi di Lampedusa e l'inchiesta in corso sulle gravi responsabilità della Guardia costiera che, pur essendo in grado di intervenire in tempo, ha evitato di soccorrere quei 200 migranti, comprese donne e bambini, finiti in fondo al mare.

Sbaglio, Vauro, o le proteste su questi fatti ti hanno sempre trovato in prima linea e insieme abbiamo combattuto per anni queste prevaricazioni? Ti dà fastidio forse che oggi anche il Movimento 5 Stelle si ritrovi con noi con le stesse idee e lo stesso programma? Il discorso di certo cambia con i sindacati. Evidentemente i dirigenti della Cgil non gradivano che io ripetessi più o meno lo stesso discorso a Bari, in quell'incontro dal titolo Cultura è lavoro. Perciò mi avevano ordinato, seppur con garbo, di scendere dal palco.

MI SPIACE Vauro, ma sei stato anticipato. A ogni modo, mi ha creato un certo disagio notare che in quella tua breve lettera tu non faccia alcun accenno al mio intervento di circa mezz'ora che ho tenuto davanti a quella straordinaria assemblea composta da giovani e anziani, disoccupati e privi di prospettive, spesso disperati, che mi hanno ascoltato applaudendo e, in alcuni momenti, anche commossi e indignati al tempo. Perché hai taciuto? Non hai fatto cenno nemmeno a uno dei numerosi temi, spesso drammatici, che andavo elencando.

Eppure quante volte, nello stesso tempo, abbiamo condiviso, in anni e anni di lotte, quelle stesse istanze? Problemi che, guarda caso, erano pienamente condivisi anche da quelle migliaia di intervenuti in Piazza della Vittoria. Anche qui, come da parte dei sindacalisti di Bari, mi si era chiesto di parlare della cultura, legata al lavoro. Era la prima volta da molti anni in qua, credo, che in Italia capitava di poter ascoltare qualcuno trattare, durante un intervento politico, di un fenomeno straordinario, cioè della nascita e dello sviluppo di una cultura unica al mondo nei secoli. Il tutto sottolineando il rispetto e l'alta considerazione in cui eravamo tenuti dai paesi dell'intera Europa. E, concludendo, chiedevo al pubblico: "Che cosa è successo? Perché siamo crollati a livelli da débâcle totale?".

Dico la verità, caro Vauro, mi sarebbe piaciuto che nella tua lettera tu avessi fatto cenno a queste mie disperate parole, invece di indugiare su alcune feroci battute pronunciate da Grillo durante i suoi interventi. Una in particolare ti aveva offeso, quella in cui Beppe, rivolto ai dirigenti politici che compongono oggi il governo delle larghe intese, gridava: "Siete tutti morti, cadaveri!". Ecco, mi fa specie che questa negatività di linguaggio venga recepita da un satirico spietato e intransigente quale tu sei. Ti dirò che io stesso ho usato più di una volta forme paradossali e irritanti di quel genere. Ho messo in scena e recitato in tutta l'Italia per anni, fra gli altri, lavori con ballate dal sarcasmo macabro tratte dalla Commedia dell'arte, quali il dialogo fra Arlecchino e Razzullo, nelle vesti di becchini. Questi due zanni, anticipando di un secolo e più Shakespeare negli stessi anni in cui Shakespeare scriveva l'Amleto, estraggono dalla tomba in cui verrà sepolta la bella vedova ossa di scheletri in quantità e subito riconoscono il personaggio del tempo in cui viveva. Sbeffeggiano la salma, ne ripetono battute e atteggiamenti.

Noi, nella ricostruzione, si riesumavano personaggi non di fantasia ma che ricordavano autorità decedute di recente dai trascorsi spesso infami, ma non ricordo che qualcuno si fosse indignato. Almeno, sto parlando degli spettatori, i critici in gran numero, invece, si sono detti orripilati da tanto cattivo gusto. È accaduto lo stesso "crac" psichico anche a te, Vauro? È indegno scherzare con i morti? E allora cosa dire di Luciano di Samosata, che scendendo in visita nell'ade qualche secolo prima del nostro Dante, incontra laggiù addirittura lo scheletro semovente di Achille e, riconosciutolo, gli afferra con le due mani il cranio e gli sputa dentro le orbite vuote urlando: "Tiè! Tiè malnato!"? Di poi se ne va, ma ci ripensa, torna indietro, riafferra il teschio di Achille con le mani e gli risputa nelle orbite vuote.

TU SEI UOMO di cultura fine e profonda, Vauro, quindi non puoi esserti dimenticato del finale dell'Amleto di Shakespeare dove, uno dietro l'altro, tutti i protagonisti dell'opera si eliminano a vicenda. La madre del principe di Danimarca trangugia una pozione di veleno e schiatta, l'amante divenuto suo marito (che ha eliminato il proprio fratello pur di farsi re) viene infilzato da parecchi colpi di spada, Laerte, il fratello di Ofelia appena sepolta, viene accoppato in duello da Amleto, il quale a sua volta viene trafitto e sta agonizzando, ma prima di schiattare riesce a dare sentenze veramente straordinarie. Insomma alla fine, sul palcoscenico, vediamo, uno appresso all'altro, una sfilata di cadaveri.

Qual è l'allegoria di quella strage? Ma è chiaro, tutti i regnanti della Danimarca (ma in verità qui si allude al regno d'Inghilterra) son solo degni di essere ammazzati, cancellati dalla Storia. A 'sto punto come la mettiamo, Vauro? Ti prego, pronuncia qualche commento disgustato anche verso Shakespeare, noto autore di "brutte parole" truculenti. Oltretutto era autore di "verità assolute" e, facendo il verso ai grandi massacratori del suo regno, ripeteva sghignazzando i loro motti come "la vittoria è nelle nostre mani, non la getteremo ai porci!". Caro Vauro, io, ti giuro, non ho nessun risentimento nei tuoi riguardi e quando ti vedrò per esempio, sul palco di Servizio Pubblico , contornato da personaggi da contrappunto orrendo, mi guarderò bene dal gridarti: "Che ci fai lassù? Scendi, ti prego, compagno!". Ma al contrario ti dirò: "Usa bene le tue battute, raccontaci storie divertenti e piene di ironia", ché questo è il nostro mestiere di pagliacci.

Dario Fo

Il Fatto Quotidiano 07/12/2013