2013

Concerto di Natale a San Vittore con Dario Fo, l' Orchesta Archistorti e la Libera Università del Teatro

23 dicembre 2013 ore 17.00

Natale diverso a San Vittore

con Dario Fo, l' Orchesta Archistorti e

la Libera Università del Teatro a San Vittore

Torna Dario Fo ospite a San Vittore per la seconda volta. Grazie alla sua volontà che da sempre lo tiene legato al problema delle carceri, grazie all’autorizzazione della Direzione e in collaborazione con la Libera Università del Teatro, un eccezionale gruppo di piccoli cantori, l’orchestra giovanile Archistorti di Reggio Emilia, diretti da Tiziana Caselli, regalerà alle persone recluse e al personale del carcere la possibilità di assistere ad uno straordinario concerto-spettacolo.

Gesto non solo culturale, quello voluto da Fo, ma anche di grande pietas, nei confronti di persone che patiscono ogni giorno condizioni drammatiche.

Noi italiani dobbiamo recuperare la coscienza del nostro valore e impegnarci per rivalutare la nostra grande tradizione culturale, anche e soprattutto nei luoghi della sofferenza, dove l’arte è enormemente necessaria – afferma a gran voce Dario Fo.

San Vittore, uno dei carceri più discusso per il problema del sovraffollamento e dei disagi, cerca ormai da tempo, grazie alla Libera Università del Teatro, diretta dal CETEC e da Donatella Massimilla, di contribuire in maniera determinante alla formazione alla persona attraverso il teatro, al recupero della dignità e della speranza dei detenuti con cui lavorano.

Grandi volontà, culturali e ancora di più umane, si sono unite per portare all’interno della suggestiva chiesa di San Vittore, lunedì 23 Dicembre in occasione del Natale, un’orchestra di 32 bambine e bambini con un grande progetto non solo musicale, ma anche di sensibilizzazione verso i diritti umani.

Già invitati dal Maestro Fo ad esibirsi a Palazzo Reale, durante la sua ultima mostra, i piccoli musici tornano del capoluogo lombardo un po’ più grandi e sempre più vicini al progetto che li sostiene.

Una doppia sensibilità quella di Dario Fo, non solo nei confronti di chi sta “dentro” ma anche di chi è “fuori”, e vive di cultura e musica per combattere una situazione di marginalità.

Così, la volontà di portare gli “Archistorti” a San Vittore, vuole essere da sostegno ad un’importante attività dell’orchestra che attraverso la musica e le persone che nella musica credono, cerca di coinvolgere bambini e ragazzi che vivono in contesti a rischio, per dar loro un’opportunità di vita.

Il progetto dell’Orchestra Giovanile Archistorti rientra all’interno del Sistema di Orchestre e Cori Giovanili e Infantili in Italia, di cui Reggio Emilia è una delle città pilota.

Questo progetto, nasce in origine in Venezuela nel 1975 dal M° Abreu con la finalità di togliere i bambini dalle favelas, dalla droga e dalla prostituzione minorile, dando loro la possibilità di un riscatto sociale attraverso la musica.

Nel 2010 lo stesso progetto viene proposto in Italia dal M° Claudio Abbado, mantenendo le stesse finalità e le stesse modalità (prima fra tutte la gratuità completa per tutti i bambini), facendo sì che questo resti, anche in Italia, un progetto non solo culturale ed artistico ma fortemente sociale ed educativo.

Nel febbraio 2011 nascono così tre piccoli nuclei in progetti pomeridiani all’interno di tre scuole elementari della città emiliana. Ora l’Orchestra è formata da 32 bambine e bambini (ormai frequentano quasi tutti la prima media) che suonano strumenti ad arco: violini, viole, violoncelli e contrabbassi con l’insegnante Tatiana Caselli. I bambini e le bambine dell’Orchestra, stanno facendo un percorso che oltre all’aspetto musicale, tiene in primo piano quelli che sono i diritti umani, la sensibilizzazione verso i più fragili, i più deboli, verso le differenze.

Un Natale da ricordare!


L'altro Mandela: tagli ai privilegi e un solo mandato.

 

di Dario Fo 

il Fatto Quotidiano 12 dicembre 2013

L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, in seguito alle continue manifestazioni e alle pressioni dei democratici, anche bianchi, del Sudafrica, venne liberato dalle carceri nelle quali aveva trascorso gran parte della sua vita. Di lì a poco ci furono le nuove elezioni e l’ergastolano fu eletto Presidente del Sudafrica. Suo vice fu nominato l’ex presidente bianco, De Klerk, che aveva firmato la sua liberazione. Mandela, appena eletto, entrando nel salone–ufficio assegnato al Presidente del Sudafrica esclamava: “Sarà difficile che mi abitui a questi spazi, vengo da una cella di dimensioni molto ridotte, col cesso incluso”. Quindi, rivolto al suo segretario, chiede: “Visto lo sfarzo, quanto è la paga?”. Il segretario mostra la parcella scritta su un foglio. Mandela rimane un attimo senza fiato e ed esclama: “Che esagerazione! No, non posso accettarlo!”. All’istante a tutti quanti noi italici vengono in mente le reazioni degli ultimi eletti al parlamento quando, agli inizi di quest’anno, qualche onorevole fece notare il disastro da cui si trovavano travolti i pensionati, i licenziati delle fabbriche chiuse, smantellate, coi macchinari spediti all’estero. “Dovremmo far qualcosa, dimostrare la nostra solidarietà!” esclamò uno dei neoeletti. “In che senso solidarietà?” chiese impallidendo il solito veterano della poltrona garantita. E la risposta fu: “Cedere una parte del nostro stipendio per soccorrere gli esodati e i giovani senza alcuna prospettiva di lavoro”. Dopo qualche secondo, nella sala non c’era più nessuno, salvo il giovane autore dell’insana proposta.

In una scena all’inizio dello stupendo film Invictus di Clint Eastwood, il partito di Mandela, riunito a congresso, decide di abolire i colori e lo stemma dalle casacche dei giocatori della nazionale di rugby, lo sport più popolare in Sudafrica, dove c'era un solo nero. Votazione per alzata di mano. Tutti gli uomini di colore levano le braccia in alto. I simboli della squadra, che oltretutto si trova in una crisi disperata, vengono annullati. Allora entra in scena Mandela, prende la parola e, con tono deciso, si dice contrario a quella risoluzione. “Dovremmo ripristinare gli Springboks. Reintegrare il loro nome, il loro emblema e i loro colori immediatamente. E vi dico perché.

A ROBBEN ISLAND, tutti i miei carcerieri erano bianchi. Li ho studiati, ho imparato la loro lingua, ho letto i loro libri, la loro poesia. Occorreva che conoscessi il mio nemico per poter prevalere su di lui. E infatti abbiamo prevalso, non è così? Tutti quanti noi abbiamo vinto. I bianchi non sono più i nostri nemici, oggi, sono i nostri fratelli sudafricani, i nostri concittadini in democrazia. E a loro stanno a cuore gli Springboks. Se glieli portiamo via noi li perderemo, ci comporteremo come da sempre hanno fatto loro con noi. No. Noi dobbiamo essere migliori. Dobbiamo sorprenderli con la comprensione, con la moderazione e con la generosità.  È il momento di costruire questa nazione, usando ogni singolo mattone a nostra disposizione”. Ci fu una nuova votazione e, per un solo voto, la proposta di Mandela, Venne approvata.

Ciò che vi abbiamo proposto non è il risultato di una sceneggiatura ad effetto facile: neanche una parola è frutto di fantasia e melodramma. In questi giorni gran parte dei giornalisti mistificano per eccesso il personaggio. Si tende a presentarlo come se si fosse trattato di una specie di San Francesco di colore che impone ai seguaci di abbandonare ogni spirito di vendetta. Un insolito politico straordinariamente illuminato e propenso al perdono e alla pacificazione ad ogni costo.

Mandela, fin da prima della sua liberazione, si estranea completamente come se non avesse vissuto tutte le angherie patite e dice: “Quando la mia liberazione era prossima ho messo giù le tracce dei discorsi che avrei dovuto tenere, e man mano le parole “condanna”, “castigo” e soprattutto “vendetta” venivano cassate. A che scopo avrei deluso i miei fratelli che speravano, in memoria dei loro cari umiliati, torturati, e uccisi per anni, anzi secoli, che fosse data soddisfazione a quel popolo trattato come gli animali da allevamento? Ma il problema più importante era quello della costruzione di una comunità nazionale che non vivesse nella logica infinita della vendetta e delle ritorsioni. Il pericolo maggiore era quello di creare, in conseguenza del far giustizia ad ogni costo, una situazione di paura, anzi, di terrore nella totalità dei bianchi, i quali avrebbero preferito abbandonare il proprio paese piuttosto che subire una ritorsione”.

Quel comportamento fu di esempio a tutti i popoli. Soprattutto l’idea di creare tre commissioni di giustizia che avessero come compito quello di scoprire la verità sulle violazioni dei diritti umani. Non solo quelle messe in atto dai dominatori bianchi, ma anche quelle del movimento al quale apparteneva Mandela. E  in particolare fu istituita una commissione che si preoccupava di indurre chi aveva commesso violenze a dire la verità e soprattutto raccontarla davanti alle loro vittime. Solo confessando i propri delitti si sarebbe potuta ottenere l’amnistia. Ma ancor più si cercava di indurre le stesse vittime al coraggio di testimoniare le violenze subite. E qui esce una verità che pochissimi cronisti hanno avuto la dignità civile di raccontare. Cioè quanti furono gli amnistiati e quanti i condannati: i primi furono 849, mentre i condannati ammontarono a ben 5392.  Compresi alcuni vincitori, come l'ex moglie di Mandela, Winnie Madikizela.

Per concludere vogliamo sottolineare un atto di Mandela veramente eccezionale, unico, forse, nella storia delle grandi guide dei popoli. Egli, nell’atto stesso in cui accettava di ricoprire la carica di Presidente del Sudafrica dichiarava che sarebbe rimasto al potere per un solo mandato. E mantenne la sua parola. Anzi, alla folla di sostenitori che insistevano perché rinnovasse quell’impegno egli rispose: “No, non voglio assolutamente essere di esempio per un andazzo che normalmente si ripete in ogni società democratica: quello di gestire il potere ad libitum. Oltretutto ci sono giovani uomini politici che, sono sicuro, faranno meglio di me. Infatti, personalmente, ho mancato in più un’occasione, a cominciare dal problema della lotta all’AIDS, e da un’attenzione più decisa, direi drastica, contro la criminalità organizzata che sta ancora rovinando il mio paese”.

 

[Riproduzione Riservata]

 

(cliccare sopra l'immagine per vederla più grande)


DARIO FO: BEPPE E' UNO DI SINISTRA, SBAGLIATO ACCOSTARLO A BERLUSCONI

 

Intervista di Matteo Pucciarelli a Dario Fo | la Repubblica 8 Dicembre 2013

MILANO - "Personalmente non mi piace quando si colpiscono i sentimenti delle persone con il sarcasmo", dice Dario Fo - icona della sinistra, premio Nobel da un po' di tempo tra i padri nobili del M5S - a proposito del blog di Grillo contro Maria Novella Oppo dell'Unità.

Quindi Grillo ha sbagliato a mettere all'indice la cronistra?

"No, aspetti. Ha solo detto che le cose scritte a proposito del movimento non sono vere. Io me li sono andati a rileggere quei pezzi della Oppo: sono pieni di falsità."

Ma è vero che vi siete sentiti con Grillo e dopo lui ha tolto il post dalla homepage del blog?

"Ho parlato con Casaleggio. Vede? A me fa enormemente piacere se una mia osservazione è utile a far cambiare idea."

E come vi siete chiariti?

"Non c'era nulla da chiarire, io parlo con molta libertà e sincerità e l'ho fatto anche sta volta. Nessun Problema.

Perchè prendersela con i giornalisti, però?

"Ma non sono i giornalisti in sè, solo chi dice menzogne. E lo sa perchè se la prendono tanto con il M5S? Perchè in tanti hanno il terrore di questi ragazzi che vogliono un cambiamento vero. Vedo tanto egoismo in giro, e tanta paura di perdere privilegi.

Esiste anche la querela, se ci si sente diffamati, o no?

"Si, poi passano anni e non si risolve nulla e si spendono patrimoni in avvocati. Sa quante ne ho ritirate io?

Grillo dice di fermare all'ingresso del parlamento gli eletti abusivi. Concorda?

" Lui utilizza il suo linguaggio, ma sono d'accordo. Mi scusi, ma se sono illegittimi perchè fare gli ipocriti? In un paese normale per una cosa del genere il governo sarebbe già crollato, siamo alla follia. La follia di una sinistra che sta insieme alla destra."

Non le fa effetto vedere che Grillo e Berlusconi adesso hanno lo stesso obbiettivo da colpire, cioè Napolitano?

"Non mi provochi. Non metta sulla stesso piano due persone diverse tra loro. Berlusconi pensa solo ai fatti suoi. Grillo ha smesso di lavorare e ha dato spazio a dei giovani volenterosi. E' come dire che comunismo sono la stessa cosa, solo perchè magari combacia un punto in un determinato momento."

E Grillo sarebbe il comunismo immagino..

"E' un uomo di sinistram di sicuro. Come me. Magari ci arriviamo in modo diverso, ma è così".

 

[Riproduzione riservata]

 

 

 

ARTICOLO PUBBLICATO SU ILFATTOQUOTIDIANO.IT il 6 dicembre 2013

 

Grillo contro giornalisti, Fo: “Nessun linciaggio, ma smettano di sputtanare” Il premio Nobel interviene sull'attacco dell'ex comico alla stampa "ostile" ai 5 Stelle. "Non accetto un linguaggio di questo genere", dice. Ma aggiunge: "I primi che devono cambiare registro sono proprio alcuni cronisti"  

Leggi Articolo Completo : clicca qui.

 


Dario Fo contro la delocalizzazione: “Così ci sfracelliamo al suolo, serve una legge”

 

Da ilfattoquotidiano.it

Il premio Nobel interviene in favore dei 300 lavoratori delle cartiere Burgo di Mantova, che rischiano di essere "buttati per strada senza pietà". Ma ad approfittare delle condizioni di "schiavismo" all'estero sono anche "Geox, Benetton, Bialetti, Fiat". L'appello allo Stato perché intervenga: "Cancellare la possibilità di spostare aziende solo per accumulare più denaro"

 
 

Non c’è limite all’ingiustizia e alla prevaricazione che il sistema economico è capace di mettere in  atto nei confronti dei lavoratori. Sembra che all’istante l’Italia sia decisa a sbarazzarsi brutalmente di coloro che tengono in piedi i tesori della sua grande tradizione artigiana e produttiva, che tutto il mondo ci ha invidiato per secoli.

I lavoratori delle cartiere Burgo di Mantova corrono il rischio di essere mandati a casa senza tanti complimenti, mettendo sul lastrico numerosissime famiglie. In nome di cosa? Solo del denaro, del  profitto, della perversa logica secondo cui se mi servi ti tengo e quando non mi servi più ti butto per strada senza pietà. Un disastro non solo per un’azienda, ma per tutta la città di Mantova, che viene a perdere una delle sue più importanti realtà produttive. E dire che stiamo parlando dell’unica cartiera in Italia che produce la carta per i quotidiani! Ciò significa che da questo momento giornali come Il Corriere, La Stampa ed altre centinaia di testate, saranno costrette a comprare all’estero la carta su cui gli italiani leggeranno le ultime notizie.

Purtroppo questo è un fenomeno che oggi in Italia sta diventando quasi la norma. Da anni ormai  gli imprenditori italiani spostano le nostre aziende all’estero, dove le paghe dei lavoratori sono più  basse, anche del 75%, e dove ovviamente si pagano meno tasse. Peccato che spesso in questi paesi i lavoratori non abbiano alcuna garanzia e si trovino ad operare in condizioni talvoltadisumane. Ma come, abbiamo lottato tutta la vita perché ai lavoratori del nostro paese fossero garantiti i diritti fondamentali, e adesso mandiamo le nostre imprese in nazioni dove questi diritti nemmeno  esistono?

Eppure alcuni fra i marchi più importanti d’Italia non si fanno alcun problema a comportarsi così. Facciamo un po’ di nomi. Fra coloro che hanno delocalizzato all’estero troviamo per esempio la  Geox (stabilimenti in Brasile, Cina e Vietnam), la Benetton (che è andata a produrre in Croazia) e  la Bialetti (che apre fabbriche in Cina, mentre i lavoratori di Omegna vengono mandati a casa). Ma la regina delle delocalizzatrici è senz’altro la nostra Fiat, che ha scelto di produrre le macchine italiane in Serbia, Polonia, Russia, facendo perdere all’Italia negli  ultimi dieci anni ben 20.000 posti di lavoro.

Per quanto ancora vogliamo sopportare questa situazione al limite dello schiavismo? Quante altre  “situazioni di emergenza” ci faranno bere, da quanti altri “baratri” ci dovremo salvare rimandando  i provvedimenti più necessari e mantenendo in vigore questo sistema vergognoso che, lui sì, ci sta  veramente portando a sfracellarci al suolo?

La cosiddetta “libera iniziativa” degli imprenditori viene platealmente sbandierata come un inalienabile diritto di chi detiene il potere economico. Ma attenti! Questa libera iniziativa non può diventare la libertà di disporre con disinvoltura della vita e del futuro dei lavoratori. Non solo, ma di un’intera società.

La verità è che è necessario un serio intervento dello Stato, il quale deve finalmente discutere ed approvare una legge che affermi che la gestione di un’impresa non può non tenere conto delle  esigenze e della volontà di chi ci lavora dentro. 

Bisogna che le istituzioni riconoscano pienamente che i lavoratori sono parte fondamentale del processo produttivo, e come tale non si possono trattare come degli arnesi da lavoro, delle macchine che quando non servono più, o costano troppo, si buttano via. Al contrario essi devono avere la reale possibilità di dire la propria nella gestione e nelle decisioni che riguardano la vita dell’azienda, a cui essi danno la propria vita.

 

Se si continua a non intervenire significa che il nostro governo accetta questo vero e proprio sfruttamento e rende lecita una gestione a dir poco criminale dell’economia italiana.

Uno Stato civile degno di questo nome non può starsene lì ad osservare come imbesuito una situazione che diventa di giorno in giorno più drammatica, ma deve intervenire a piedi giunti percancellare la possibilità che le aziende possano essere da un giorno all’altro spostate in altri paesi, al solo fine di accumulare sempre più denaro, infischiandosene di coloro che hanno contribuito alla crescita e allo sviluppo di quelle imprese e dell’intera società nel modo più concreto di tutti, cioè con la propria fatica e il proprio lavoro.